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Piacere cavaliere!

By 7 Giugno 2023Giugno 23rd, 2023No Comments

Da Portomaggiore all’Europa, la storia del Cavaliere Paolo Bruni, oggi presidente di CSO Italy. Dagli aneddoti infantili alla scintilla delle sue scelte professionali, dal valore della comunicazione all’importanze delle relazioni, dall’abitudine mattutina all’ultimo pensiero notturno, da quel che serve a cosa si può fare meglio, il tutto al servizio dell’ortofrutta italiana / di Claudio Dall’Agata

Racconto storie di persone. Sono alla ricerca delle passioni e delle emozioni di coloro che, a modesto parere di chi scrive, sono passato e presente del settore ortofrutticolo italiano. Si succedono in queste righe tutte persone a me care, profili più e meno noti, indoli, attitudini, competenze e caratteri diversi, gangli di relazioni nate negli anni, riferimenti professionali. Sono le donne e gli uomini che da tempo conosco e stimo. Tra queste, non tutte, ci sono poi figure che, per responsabilità, visibilità ed esperienza sono decisamente ben note e raccontar di loro contiene in sé una sfida superiore. Di chi è ben conosciuto, e di cui si è già scritto e parlato, sono tante le informazioni che già si sanno e far emergere piani originali e meno noti è più complicato. Il Cavalier Paolo Bruni, oggi presidente di CSO Italy e protagonista delle prossime righe, è uno questi. Diversi sono gli aneddoti che mi legano a lui: dall’entusiasmo nel prestarsi quale provetto battitore di un’improvvisata asta di beneficenza di arredi in cartone durante una delle ultime edizioni cesenate della fiera Macfrut, al sempre disponibile ascolto di riflessioni da condividere, dalla sua piacevolissima presenza al decennale del nostro Consorzio a Roma, all’incontro fortuito in ascensore prima della corsa mattutina. Tanta la sua esperienza accumulata in questo mondo e innegabile la capacità di starne ai vertici. Ci siamo rincorsi e con mio personale orgoglio alla fine è qui anche lui.

Paolo Bruni, per tutti il Cavaliere, come si costruisce la credibilità e l’autorevolezza?
Prima di tutto con tanti anni di diuturno impegno. Ho sempre tenuto un’attenzione ferrea a “rimanere sul pezzo”, e poi costanza, coerenza, senza mollare mai. In questo mondo ho iniziato da bambino. Ho due ricordi. Nell’azienda agricola di famiglia allevavamo cavalli da trotto. Facevo le scuole elementari e prima di andare a scuola andavo con mio nonno a dare da mangiare ai cavalli. Non mi obbligava nessuno, ma io ci tenevo a portare loro la biada. Il secondo è legato all’ortofrutta, di fatto il mio amore professionale. Era il 1972 e io avevo 13 anni, in azienda attorno a Portomaggiore in Provincia di Ferrara avevamo più di 150 ettari impiantati a frutta e in quell’estate ci fu una delle più grandi ondate di scioperi collettivi in agricoltura, a Ferrara oltre 50 giorni di rivendicazioni. All’ingresso dell’azienda c’erano picchetti di scioperanti che impedivano ai cosiddetti crumiri di andare a lavorare. Avevamo la frutta sugli alberi, ma non avevamo la manodopera per raccoglierla. Chiamammo a raccolta tutti i familiari, le donne raccoglievano la frutta e gli uomini spostavano le casse. Quell’estate non si andò al mare, ma in compenso io feci i muscoli.

L’agricoltura dei Bruni a Portomaggiore: che dice la storia?
È la storia di un’azienda agricola nata e cresciuta come tante altre in Italia, nell’immediato dopoguerra. I miei nonni iniziarono facendo i bovari, poi i mezzadri, gli affittuari, fino a diventare proprietari e coltivatori diretti dei terreni. Con mio padre avvenne l’accelerazione imprenditoriale nella produzione e quando fu il mio tempo pensai che la naturale evoluzione che serviva era dedicarsi al miglioramento della fase di vendita al consumatore finale, a valle della coltivazione. Nella produzione si erano già fatti passi da gigante, mentre sulla commercializzazione c’erano grandi spazi e opportunità da cogliere. All’epoca cereali, bestiame e ortofrutta venivano venduti a commercianti di passaggio, serviva un approccio più strutturato e consapevole per creare un rapporto diretto con il mercato, in grado di fidelizzarlo. Era nella commercializzazione che si formava la ricchezza e occorreva trovare il modo di trasferirla alla produzione. A 21 anni nel 1980 diventai presidente dell’allora cooperativa Delta Frutta, nel ferrarese, e da lì, da Portomaggiore, le responsabilità nell’agroalimentare sono cresciute fino all’Europa.

Non solo nel fresco, anche nel trasformato…
La mia esperienza in Conserve Italia fu, se posso, al di là della mia carica. Fu l’effetto e la dimostrazione che in quel passaggio come sistema cooperativo ci avevamo visto giusto nello stringere il rapporto tra prodotto fresco e trasformato. Ma prima ci fu un altro passaggio, la nascita di Apo Conerpo nel 1994. Io all’epoca ero presidente del consorzio cooperativo CIOD di Ferrara e quello fu il tempo in cui ebbe una decisa accelerazione il processo di coagulo del sistema Apo Conerpo. Il rapporto e la stima reciproca con l’allora direttore del Conecor, Paolo Chiari, fu determinante in questo processo. In quegli anni il nocciolo duro delle cooperative e dei dirigenti, tra cui il prof. Calderoni, afferenti a Apo Conerpo per il fresco erano gli stessi del sistema Conserve Italia sul trasformato. Avevamo quindi interessi comuni e reciproci, pensammo che il fresco e trasformato dovessero marciare uniti. Da presidente di Apo Conerpo nel 2000 divenni vicepresidente vicario di Conserve Italia. Quello fu il germe di un’intuizione importante: la decisione di mettere a disposizione del fresco la notorietà del brand Valfrutta, di proprietà di Conserve Italia. Nacque poi così negli anni la divisione, e il relativo brand, Valfrutta Fresco. Poi con Conserve Italia nel 2004 comprammo Cirio. Acquisire l’azienda icona della produzione italiana di pomodoro fu un risultato stratosferico, sia dal punto di vista economico, per la dimensione che avremmo raggiunto, che da quello psicologico, per tutto il sistema cooperativo. Aver fatto quell’acquisizione così importante era come dimostrare il potenziale del sistema cooperativo e uscire da quell’idea di presunta inferiorità della cooperazione rispetto alla grande industria. Ricordo l’orgoglio di quando chiudemmo l’accordo con il dr. Resca, uno dei tre commissari giudiziali di Cirio.

Tanti i ruoli ricoperti a diversi livelli: in quale di questi hai avuto la sensazione di aver potuto incidere di più?
Sono tre gli ambiti. In primo luogo sono orgoglioso del mio percorso in Apo Conerpo, per storia, dimensione di aggregazione e partecipazione a un progetto di alta visione prospettica, in grado di realizzare la più grande organizzazione di produttori in Europa. C’è poi l’esperienza in CSO Italy, a cui tengo particolarmente per pragmatismo operativo e continuità di servizio, anche in momenti non semplici. Infine sul piano della comunicazione ho sempre creduto nel valore e nella necessità di rivolgersi al pubblico generalista superando i limiti dell’autoreferenzialità, quando ancora nessuno parlava di agricoltura al grande pubblico. Oggi lo fanno in tanti ed è un gran bene, oltre che un orgoglio quello di essere stato tra i primi.

Di agricoltura in generale ma anche di ortofrutta, un settore dalle mille sigle di rappresentanza per ex colore politico, formula organizzativa e specializzazione di business. Se in ortofrutta si dice spesso che manca l’aggregazione aziendale, la rappresentanza non dà il buon esempio… o no?
Credo sia un fatto culturale tutto italiano, più che settoriale, non a caso in tutti i settori le rappresentanze sindacali in Italia hanno da sempre, e ancora per parte, richiamo iniziale all’indirizzo politico. Siamo quelli della differenziazione esasperata, dell’individualismo innovativo e della genialità sorprendente, che molto spesso ci ha portato fuori dalle secche durante i problemi. L’individualismo è l’altra faccia della grinta e dell’intraprendenza. È il nostro limite e la nostra ricchezza. La sfida è tenere insieme aggregazione e intraprendenza. Per amore di verità, anche in politica negli anni il numero dei partiti non si è ridotto, anzi. Lo dice bene l’onorevole Pier Ferdinando Casini, caro amico da anni, nel suo recente libro “C’era una volta la politica”. Non credo che il problema sia solo il numero largo degli interlocutori, piuttosto ritengo che il tema debba essere ricondotto al merito e alla franchezza del confronto tra le parti, che prima c’era e purtroppo oggi manca. Si preferiscono semplici e superficiali tweet, che dividono e polarizzano posizioni, piuttosto che approfondire i problemi che poi sono di tutti. Credo che tornare su competenza e merito ci aiuterebbe ad unire. Però qualche esempio comunque di successo c’è…

Tipo?
Il CSO Italy, nato nel 1998, è stata una delle intuizioni del mondo ortofrutticolo italiano che è riuscita a fare sintesi, nato dalla necessità del settore di emanciparsi con l’obiettivo di realizzare servizi utili per reggere meglio alle sfide della globalizzazione, indipendentemente dalla natura dei soggetti aggregati. In CSO entrarono quindi cooperative di produzione di ogni colore politico e soggetti privati, una partecipazione larga e semplice da raccontare, ma tutt’altro che banale allora da fare. Tutto ciò ci ha permesso di affrontare insieme le grandi fiere all’estero, di costruire una base statistica di dati larga e rappresentativa, con serie storiche di grande utilità per le previsioni di produzione, e di coordinare i lavori per la realizzazione dei dossier per l’abbattimento delle barriere fitosanitarie. Poi nel 2012 un nuovo salto con l’apertura alle aziende della filiera dell’indotto, dal sorting al packaging. A seguire, grazie al “lodo” Roberto Graziani, come simpaticamente lo ricordo per merito in quanto autore dell’intuizione, l’integrazione della parola Italy nel nostro nome.

Quando si ricoprono ruoli di rappresentanza e responsabilità è prioritario ascoltare per gestire, o proporre per indirizzare le strategie?
So che bisognerebbe rispondere “ascoltare per gestire”, perché è più popolare, però penso che le difficoltà del nostro mondo ci impongano di provare a indirizzare le future strategie. Occorre affrontare con coraggio le grandi difficoltà per mantenere la produzione ortofrutticola nel Paese, perché se si esce dai mercati poi non ci si ritorna più. Per questo credo che lo stimolo dei consumi non sia derogabile, magari anche con una divisione specifica in CSO Italy. Poi serve continuare ad aggregare per fare ricerca, per cercare nuove varietà resistenti in grado di preservare il gusto dei prodotti. Ognuno da solo in questo può fare poco.

Italy è il richiamo alla nostra provenienza: è ancora un valore, così come ce lo raccontiamo?
L’italianità è decisamente un valore che a volte dimentichiamo, sottostimiamo e che risulta più evidente se lo si osserva con gli occhi degli altri. Nella mia esperienza in Europa, in Copa-Cogeca, mi è capitato di toccare con mano cosa pensano gli altri di noi in tutti i paesi che ho vistato, europei e non. Tra questi ricordo il cinquantesimo anniversario della cooperazione coreana a Seul, lo organizzarono nello stadio Olimpico con oltre 50 mila cooperatori, uno spettacolo di partecipazione e appartenenza. Anche lì tante parole di apprezzamento per l’Italia e la conferma che, tranne pochi casi che non fanno tendenza, a parlare male degli italiani ci sono solo gli italiani. Per tutti gli altri siamo il popolo della genialità, delle capacità e dell’intraprendenza, mentre noi a volte siamo autolesionisti e questo ci limita.

In che senso?
Se fossimo più consapevoli della nostra identità e della nostra forza, ragionando in termini unitari, saremmo anche più efficaci a sostenere le nostre battaglie e i nostri candidati anche a ricoprire incarichi di pregio. Per esempio in DG AGRI, la direzione europea a Bruxelles in ambito agricolo, nei primi piani era consuetudine trovare tanti italiani, ma più si saliva ai piani di maggiore responsabilità più la presenza italiana diventava più rarefatta, certamente più di quanto meriterebbe la nostra storia e la nostra vocazione agroalimentare. In Europa l’Italia ha investito in fattorini e autisti piuttosto che sull’intellighenzia, più sui funzionari che sulle responsabilità politiche apicali. Un riferimento però ce l’abbiamo, è l’onorevole Paolo De Castro, e vale tanto. Spero che a breve non decideremo di fare a meno della sua esperienza e delle sue straordinarie capacità.

CSO Italy si occupa anche di missioni fieristiche: che fiere servono all’ortofrutticoltura italiana?
All’estero credo occorra concentrarsi sul sistema Italia. Per questo maggiore è l’aggregazione, il messaggio unitario e l’approccio collettivo, maggiore è l’effetto e l’efficacia. In un mondo decisamente più piccolo di prima, dove per ogni azienda è potenzialmente in grado di allargare le proprie destinazioni singolarmente, le collettive sono lo strumento per migliorare il percepito dei valori comuni e trasversali alle nostre aziende. In Piazza Italia a Berlino c’è il sistema Italia che si presenta al mondo, ecco perché abbiamo scelto come payoff “Italy, the beauty of quality”. Soffro quando vedo polverizzazione di approccio. Per questo una maggiore aggregazione rimane un obiettivo da raggiungere in questa direzione, per comunicare meglio i contenuti dell’italianità. Se riusciremo a farlo i benefici si riverbereranno su tutta la produzione nazionale.

E in Italia?
In Italia i consumi continuano a scendere ed è un problema crescente da ricondursi a tante motivazioni, tra cui la perdita di valore percepito del prodotto agli occhi del consumatore. Dobbiamo lavorare di più sulla consapevolezza dei consumi ortofrutticoli, far avvicinare il consumatore alla produzione, spiegare a chi compra i motivi della qualità e della differenza. Solo così si informa su come riconoscere la qualità e i motivi dei relativi costi. Gli ultimi numeri della fiera Macfrut a Rimini sono molto positivi. In generale si potrebbe affiancare al successo delle fiere business anche il lato consumer, tornerebbero e investirebbero i leader di settore e con loro tutto il sistema Italia. Altri prodotti alimentari hanno fiere del genere, penso al Vinitaly, così come tante fiere associano la parte professionale con la presenza del consumatore, magari in giorni diversi, penso alla fiera del fitness o il Sigep di Rimini, eventi da 150 mila visitatori. Abbiamo bisogno di una fiera dell’ortofrutta italiana forte, dove ci sono tutti gli operatori più importanti: ci sarebbero ancora più buyer.

Come si diventa efficaci comunicatori?
La comunicazione ha poche regole chiare. Essere competenti è un prerequisito fondamentale, ma è altrettanto importante riuscire a sintetizzare in poco tempo una risposta compiuta con un linguaggio semplice, chiaro, comprensibile, scandito senza fretta. Se elabori troppo, preferisci il rigore scientifico, articoli con troppa precisione, magari ti capiscono solo i professionisti. Oltre 20 anni di esperienza televisiva in Rai, e non solo, sono stati una palestra formidabile.

Quali sono le tue passioni?
Le mie passioni sono quelle che mi ricaricano, mi danno serenità e mi mantengono in equilibrio. È così camminare ogni mattina dalle 5.30 alle 7, tutti i giorni faccio dai 10 ai 12 km: più che una passione è una necessità fisico-mentale. Ho iniziato a 40 anni, quando ho sentito la necessità di manutenere il corpo, ma poi è divenuto un momento importante della mia giornata, al quale non rinuncio più. Da allora non rinuncio mai, vado tutti i giorni. In 23 anni ne avrò saltato solo qualcuno. In quell’ora e mezza mi rilasso, rifletto, nascono idee che diversamente verrebbero sommerse durante il giorno, quando si affrontano i problemi contingenti. Allo stesso modo ho la passione per il mare, quando esco in mare aperto è come trasformare quel piccolo natante sul quale sei in un’isola tutta tua. È il luogo nel quale trovo la serenità necessaria per affrontare le difficoltà della vita. E poi sono una vera passione quei giorni a sciare con le mie due figlie. Ho imparato a 11 anni, da allora non ho mai smesso.

La politica è una di queste passioni? A Ferrara c’era la famosa scuola dell’onorevole Cristofori…
La politica di partito non l’ho mai fatta direttamente, non ho mai avuto incarichi e, anche se me lo hanno chiesto, non mi sono mai presentato. La politica da sempre mi entusiasma. Un paese ha bisogno della politica e non di antipolitica. Gli statisti guardavano alle prossime generazioni, oggi si guarda solo alle prossime elezioni. Anche per questo oggi mi entusiasmo meno.

La capacità di relazione, oltre che essere una rara qualità, è anche una vocazione. Da dove si comincia e come si capisce con chi costruire relazioni nell’interesse collettivo?
Avevo pochissimi anni, forse 15 o pochi di più, a Portomaggiore c’era un signore che tutti chiamavano “presidente dei presidenti”, il suo nome era Cesare Cesari, commendatore del mio paese, che da agricoltore si era sempre adoperato per far crescere il mondo agricolo locale e con esso l’intera comunità. Mi affascinava il suo riferirsi agli altri, l’ascolto e la sintesi, era autorevole e carismatico. Tutte qualità al servizio collettivo. La vita mi ha regalato la possibilità di mettermi allo stesso modo al servizio della mia comunità. Cesari in punto di morte mi ha detto che era orgoglioso di me, che lo avevo superato, lui che per me è stato un punto di riferimento, la mia scintilla. Poi se razionalmente devo elaborare la formula della buona relazione, allora parto dal dovere di trovare sempre voglia, forza e coraggio di ascoltare anche coloro con cui non hai immediata sintonia ed empatia. Superato l’ostacolo iniziale, sono le persone con cui nel percorso mi sono sempre trovato meglio. Basta abbattere il diaframma di diffidenza reciproca e chi lo fa acquista credito immediato, oltre a poter ragionare in maniera più larga, con più interlocutori, con ancor meno tabù e preconcetti. Il secondo elemento importante è essere sempre sul pezzo, essere informati e aggiornati. La cura delle relazioni passa anche dalla lettura delle interviste, dai confronti quotidiani, da ciò che apprendi. Se non si hanno informazioni e non si elaborano riflessioni risulta complesso condividere le considerazioni. In questo senso anche una semplice telefonata di prima mattina a commento dell’intervista appena uscita crea empatia.

Che cos’è l’eleganza?
La ritengo un modo naturale di occupare il proprio spazio, unico, curato e coerente con se stessi. Non è certo l’ostentazione di griffe o altro, cose che spesso scivolano nella volgarità. Se qualcuno in parte me la riconosce lo devo certamente a mia madre, elegante per natura.

Deriva da questo il tuo rispetto e l’attenzione per le donne?
Con mia madre ho avuto rapporto strettissimo. È stata una donna e una moglie pioniera della sua epoca, anche per la sua enorme cultura è stata un mio costante riferimento, anche per temi molto intimi. Mi ha fatto capire e sentire il valore e la sua disponibilità al confronto su tutto. Per crescere mi sono staccato ben presto da lei e mio padre, ma sono sempre ritornato da lei per confrontarmi da uomo.

Quando chiudi gli occhi a fine giornata a cosa pensi?
Sono figlio di contadini e a fine giornata si fa il calcolo di quanto si è lavorato, cosa si è fatto, come si poteva farlo meglio, cosa manca per completare il lavoro e capire qual è la prossima sfida. Chiudo gli occhi e faccio il bilancio della giornata. Ho fatto una carriera quasi da diplomatico dell’ortofrutta, ma amo la concretezza. È il mio modo di pensare al domani, perché il bilancio sia sempre positivo.

A 5 minuti dal termine della nostra chiacchierata arriva, puntuale, un suo messaggio con un allegato. Roma 1997, è una foto che ritrae quattro uomini al tavolo di un evento pubblico. Tra i quattro, il protagonista di oggi. È l’occasione in cui Bruni diviene presidente del settore ortofrutticolo di Fedagri, al suo fianco siede chi lo ha preceduto. Per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, le sue bretelle sono inconfondibili. È Tomaso Sangiorgi, storico e compianto cooperatore ortofrutticolo romagnolo. Una famiglia, la sua, di agricoltori a Massalombarda (RA) e una vocazione per la rappresentanza della propria comunità. Valori unici, impressi, presenti. Lo conoscevo, bene, anche io. Che orgoglio, era mio zio!

L’intervista è stata pubblicata sul sito di Bestack. Per visualizzare la versione originale, clicca qui!